Dal
diario di Carlo Aldè pdf
Pubblicato
su Stile Alpino n°2, Settembre 2006
“Perché
vada lontano, fa che gli sia dolce anche la pioggia nelle scarpe, anche
la solitudine” (Francesco De Gregori - Santa Lucia).
Stiamo gustando
l’ultimo pranzo
a base di cannelloni ed asado all’Estancia Cristina, quando mi tornano
in mente le parole della canzone di Francesco De Gregori. Solo ora,
dopo
quattro giorni dalla salita, mi accorgo di essere andato veramente
lontano.
La mia mente negli ultimi attimi della nostra avventura era stata
sempre vuota, senza pensieri, senza emozioni: come un foglio di carta
bianca.
Per via della stanchezza e delle condizioni fisiche, non avevo ancora
capito
di essere arrivato in cima: avevo solo voglia di riposare, per
scaricarmi
di tutta la tensione accumulata nei giorni precedenti. All’improvviso,
dopo aver soddisfatto le esigenze dello stomaco, rivedo come in un film
tutti gli eventi del nostro lungo soggiorno patagonico; sono passati
circa
due mesi e mezzo da quando siamo partiti da Lecco! Mi ricordo la prima
volta che, con Casimiro e Paolo, saliamo i primi 400 metri di parete
con
difficoltà di medio livello. Salgo da secondo e trovo lungo schiodare
i grandi lamoni di granito per via del martello con il manico mezzo
rotto
e senza il foro per fare la catena con i moschettoni. Non mi
posso
neanche appendere alla corda per la mancanza dell’imbracatura,
depositata
con tutto il materiale, fin dal giorno prima, alla base della parete
alla
sinistra del nostro spigolo nord-est. La nostra prima idea infatti era
di salire in centro alla parete est per essere più al riparo dal
vento proveniente da ovest. La friabilità della parete salita il
giorno prima, ci aveva indotto a ricercare un’altra possibilità
piu’ a destra sullo spigolo. Per sfruttare al massimo il bel tempo,
cosa
molto rara in queste zone, saliamo con il poco materiale abbandonato
dalle
precedenti spedizioni dei Ragni. Avevo già provato ad arrampicare
senza imbracatura e con gli scarponi anche su difficoltà più
sostenute. Questa volta però provo un senso di insicurezza,
di timore che fatico a dominare: sarà il primo impatto con la Patagonia
o meglio con l’alpinismo extra-europeo. Le numerose letture di libri di
montagna mi condizionano troppo! La mia indecisione scompare alla vista
della seconda torre, che decidiamo di dedicare al nostro amico
Benvenuto
Laritti (Ben). Ritrovo la carica psicologica, la voglia di salire che
avevo
nei giorni scorsi quando eravamo bloccati a Calafate e non potevamo
attraversare
il Lago Argentino per la rottura della barca della Gendarmeria. Quanta
sofferenza in questi giorni di inattività forzata col tempo bello!
Rimango allibito per la verticalità del granito che ricorda il Grand
Capucin: è impressionante, ma al tempo stesso stupendo. Ormai la
Torre Ben ci ha drogati, siamo costretti a salirla per ricercare la
felicità
che ci ha rubato fin dalla sua prima visione. L’indomani
trasporteremo
il nostro materiale sullo spigolo. Il tempo però infrange tutti
i nostri inutili progetti. In Patagonia i preventivi devono essere
scordati;
bisogna vivere alla giornata ed ogni mattino alzarsi sperando che il
nuovo
giorno sia quello decisivo, quello che si aspetta da molto tempo. E’
questo
un sogno che ti rovina psicologicamente perché ogni giorno
brutto è un giorno in meno: diminuiscono le possibilità
e al tempo stesso aumenta la voglia di arrivare in cima. I sacrifici
compiuti
ed i soldi spesi fanno aumentare sempre più la posta in gioco.
Il passato è un forte stimolo per il presente.
Passando molti
giorni nella
truna a non far niente, ti accorgi che l’attesa di qualcosa è
sempre migliore della realtà. La voglia di sfuggire dalla realtà
per tornare alla vita normale è stata la molla che mi ha spinto
nell’ultimo tentativo a cercare di essere sempre più veloce, sempre
più deciso nelle mie azioni per ritornare all’Estancia Cristina.
Lo stesso desiderio lo provo quando il giorno 10 febbraio decidiamo di
abbandonare l’impresa e giunti a metà ghiacciaio il sole comincia
a farsi sentire e le nuvole a diradarsi. Casimiro ci propone di
fermarci
per far asciugare tutto il materiale e per vedere come si mette il
tempo:
vuole tentare l’ultima possibilità. Mi faccio convincere, ma non
ci credo più: ormai il tempo ci ha preso in giro troppe volte. Ero
convinto di dormire all’asciutto del bivacco Pascal: il Paradiso
può attendere ancora per qualche giorno! Dopo un’ora inizio a
riprendere
fiducia; mi torna in mente una frase di Reinhard Karl, un alpinista
tedesco:
“La via per la valle passa attraverso la vetta”. Speriamo che abbia
ragione!
A mezzogiorno siamo ancora alla base della Torre Ben. E’ la sesta volta
che risalgo fin qua. Con Paolo poi attrezzo il terzo tiro della Torre,
vedo la parete sopra di me che strapiomba in misura notevole; penso
alla
fatica che sta facendo per chiodare. Meno male che questo tiro non è
toccato a me. Mi accorgo di essere proprio fuori dal mondo: chissà
quanti avvenimenti sono successi nei nostri lunghi mesi di solitudine e
noi non lo sappiamo e magari non lo sapremo mai. Assorto in questi
pensieri
non mi accorgo che il tempo è volato: sono già le 20,30
quando Paolo arriva in sosta. Devo salire anch’io per schiodare e
fissare
la corda nei chiodi intermedi, in modo che resti tesa e non si allunghi
quando vi saliamo con i jumar. Cerco di fare in fretta perché le
prime due corde sulle quali gocciola l’acqua dalla cima della
Torre
sono già ghiacciate. Fra poco tutta la parete sarà coperta
da uno strato di vetrato. Presi dalla fretta non riusciamo a sistemare
bene le corde. Me ne accorgo l’indomani quando, con lo zaino pesante,
cerco
di risalire la corda che avevamo fissato per metà il giorno prima.
Riparto io dall’ultima sosta e salgo la fessura obliqua che abbiamo
sopra
di noi. Salgo con nuts e friends fino a che la fessura diventa molto
sottile
e mi obbliga ad attraversare a destra su lame un po’ instabili.
Casimiro
è preoccupato: sto transitando 30 metri sopra la sua testa su un
tratto un po’ pericoloso. Mi sento esaltato per la bellezza della
via;
pensare che solo un’ora prima credevo di essere più lento degli
altri due compagni. Era un’idiozia che mi perseguitava fin dal primo
giorno.
Finalmente mi accorgo di essere anch’io un estremo. Ormai manca poco
per
uscire dal pilastro e recuperiamo parte del nostro materiale. Devo
ridiscendere
per un pezzo e unire le corde che ci sono avanzate. Appena recupero lo
zaino mi spavento per le evoluzioni che il vento gli fa fare, si
allontana
dalla parete per circa 30 metri. L’indomani, dopo un bivacco in cima
alla
torre, il vento è aumentato e perdiamo tempo per recuperare
il resto del materiale. Lo zaino continua ad incastrarsi. Finalmente
nel
pomeriggio riprendiamo a salire: il tempo sta peggiorando e la sera
arriviamo
in cima alla torre successiva. Per fortuna riusciamo a trovare un posto
da bivacco molto comodo. Sarà l’ultimo asciutto! Infatti il giorno
dopo il tempo è brutto e la sera siamo obbligati a scavare un
terrazzino
nel ghiaccio per star seduti sul pendio di 70/80° che si trova
sotto la vetta. Ormai siamo quasi vicini alla cima: mancheranno circa
200
metri di dislivello. Siamo tutti bagnati e non riusciamo a fissare la
tenda:
ci infiliamo solo dentro per tentare di ripararci dall’acqua e dal
vento.
Non avevo mai bivaccato in queste condizioni. L’indomani, col brutto ,
riusciamo ad arrivare in vetta. Sono intento a togliere un chiodo da
ghiaccio
quando sento Casimiro che urlando annuncia di intravedere la cima. Ho
una
gran voglia di arrivare e perciò abbandono i chiodi che non riesco
a togliere. Alla fine mi accorgo di essere arrivato su una piazzuola di
pochi metri in mezzo ad una bufera patagonica! Non me l’ero immaginata
così la vetta: credevo fosse più bella. Ho solo voglia di
scendere!. Casimiro mi abbraccia e Paolo mi stringe le mani. Momenti
come
questi mi erano già capitati e mi ero emozionato al punto di restare
senza parole per qualche secondo. Ora, il fatto di essere sulla cima di
una montagna così ostile non mi suscita alcun sentimento o commozione.
Al momento penso che siano la stanchezza, le pessime condizioni
atmosferiche
le difficoltà che ci attendono. La discesa ci riserva ulteriori
problemi; siamo convinti di poter scendere dalla via normale lungo il
ghiacciaio
e non dalla parete, ma la tormenta ce lo impedisce. Dopo un bivacco in
un crepaccio nei pressi della cima e mezza giornata a girovagare
a vuoto in mezzo ad una tormenta con visibilità nulla, siamo
obbligati a scendere dalla parete salita. Abbiamo una corda intera, una
corda ramponata a metà , uno spezzone di circa 30 metri e pochissimo
materiale. Le ultime corde doppie le faremo utilizzando i gradini delle
staffe come se fossero chiodi!! Un ulteriore bivacco in
parete
ci attende e quando siamo ancora coi piedi sul ghiacciaio Upsala
decidiamo
di tornare al Pascal. Sono le 6 di sera e sono 12 ore che siamo
ripartiti
dall’ultimo bivacco. Il cibo ed il gas sono finiti da più di un
giorno e ci dissetiamo mettendo in bocca neve mista ai dadi
del brodo. Sono talmente spossato che non mi preoccupo più di nulla;
i sei giorni in parete mi hanno “prosciugato”. Il tempo continua
ad essere schifoso: pioggia e vento forte. Sono costretto a sopportare
anche l’ultima lavata patagonica! Carlo Aldé